1ª parte
La civis romana, il boom economico
e l’assistenzialismo di Stato.
Cosa è andato storto?
La millenaria narrazione dell’Italia è fatta di successi e sconfitte. Ma un progressivo sviluppo sociale ed economico tiene uniti i secoli che si avvicendano. Fino a quando, per usare le parole dell’economista Wilhelm Roepke, fa la sua comparsa sulla scena europea (e italiana) il “mendicante di Stato”
Il conte Honoré Gabriel Riqueti de Mirabeau dichiarò, un giorno - erano i tempi della Rivoluzione francese -, di non conoscere che tre soli modi per esistere in società: essere ladro, mendicante o salariato. L’aforisma, pronunciato in un’epoca di grandi cambiamenti sociali, esprime un principio economico che non ha tempo. Nell’indagare sul fondamento morale di ogni sistema produttivo, Wilhelm Roepke riteneva che, nella storia dell’umanità, si intravvedessero solo tre modelli economici: quello basato su un comportamento eticamente negativo (la legge del più forte) quello basato su un comportamento eticamente positivo (la beneficienza), e quello basato su un comportamento eticamente neutro (almeno all’apparenza). Il terzo modello sostituisce alla relazione tra ladro e vittima, e a quella tra benefattore e mendicante, il rapporto contrattuale tra datore di lavoro e impiegato. E, poiché nella società capita che il ladro si imbatta in un mendicante e quest’ultimo in un salariato, i tre modelli possono coesistere senza escludersi vicendevolmente. Tuttavia, solo quando il modello, all’apparenza neutro, si impone sugli altri, un’economia genera crescita sana. E, giudicando dai frutti, l’economia del lavoro non è eticamente neutra. Perché richiede e, sviluppandosi, rafforza la certezza del diritto, il riconoscimento dei meriti e l’equità nella distribuzione della ricchezza.

Questa riflessione generale coinvolge l’Italia in modo particolare. La fondazione di Roma coincide con un solco sulla terra che è anche traccia nella storia.

Escludendo le barbarie che hanno contraddistinto l’intera storia dell’umanità, fatta anche e spesso di guerre e sopraffazioni, e soffermandoci sul piano dello sviluppo storico delle idee, si può dire che Roma assimili l’esperienza delle pòlis greche attraverso gli scambi commerciali con la Magna Grecia e, successivamente, la riduzione in provincia romana della Grecia.

Tale assimilazione non è secondaria al fatto che, almeno a partire dalla Roma repubblicana, si inneschi un processo secolare di maturazione ideale e civile, che giunge a compimento nel 212 d.C., quando la Constitutio Antoniniana dell’imperatore Caracalla garantirà uno status giuridico – la cittadinanza! – non più subordinato all’etnia o alla discendenza, ma alla sola appartenenza all’Impero.

Circa due millenni dopo, il medesimo luogo geografico, l’Italia, oggi organizzato nella forma giuridica di Repubblica democratica, attraversa una crisi trentennale che ha colpito il diritto, la crescita economica e la distribuzione della ricchezza. E, sulle cause del declino, molto è già stato scritto, discusso, urlato. Tuttavia, ogni domanda ne nasconde un’altra. Cos’è accaduto negli ultimi decenni? Mentre nel suo peregrinare Enea si chiedeva: “Dove approdare?”, oggi è necessario porsi la domanda inversa: “Da dove partire?

Dopo aver sopportato secoli di saccheggi, l’Italia sopravvive anche ai bombardamenti. Nel secondo dopoguerra, la ricostruzione, spinta dal piano Marshall, pone le basi per quel miracolo economico che Pier Paolo Pasolini, nei suoi Scritti Corsari, definisce rivoluzione consumistica: non si agitano più le forche, ma tra il benessere, ricolmo di elettrodomestici, televisori e automobili, si fa strada una forza devastatrice che azzera l’identità culturale del Paese, lasciando libero sfogo all’edonismo del consumo. E, da questa rivoluzione, all’apparenza meno cruenta della ghigliottina, nasce una società di massa in cui il Paese, incurante della rotta, prospera con tassi di crescita a doppie cifre. Fino al 1990, quando il progresso economico si arresta bruscamente.

Cos’è accaduto in quel finale di millennio?

L’economia del lavoro marcia a pieno ritmo quando, in Germania, il 9 novembre del 1989, cade il muro di Berlino. A catena cadono i regimi comunisti dell’Europa orientale, e l’Unione Sovietica, nel 1991, si scoglie al pallido sole dell’agosto moscovita. La festa è grande tra i berlinesi, in tutta Europa e nella steppa euroasiatica, fino al porto di Vladivostok, sulla costa pacifica dell’estremo oriente russo. E al risveglio dall’euforia, alla porta del salariato, bussarono un ladro, l’ipercapitalismo globale, e un mendicante: l’assistenzialismo di Stato.

(Continua…)
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