2ª parte
L’Ipercapitalismo e quel paradosso
che fa vincere la Cina e impoverisce l’Occidente
Dal secondo dopo guerra in avanti, in ragione di processi storici imprevedibili e non governati, il sistema di vasi comunicanti della nuova economia mondializzata farà corrispondere, all’importazione di merci cinesi, la fuoriuscita di ricchezza materiale e immateriale. In pratica, l’Occidente inizierà a importare povertà.
Ipercapitalismo e assistenzialismo bussarono alla porta e l’Italia, conoscendoli entrambi, aprì. L’Italia conosceva già il capitalismo nella sua versione occidentale, a cui riservava un sentimento ambivalente: da una parte, l’attrazione per il modello trionfante a stelle e strisce, dall’altra, il disincanto verso la vita patinata dei reclami pubblicitari, dove, con martellare incessante, il consumo sfilava come unica ragione d’essere. E già conosceva anche l’assistenzialismo di Stato, a cui le ideologie collettiviste, in nome di una giustizia sociale, fornivano ampia copertura, a partire almeno dal secondo dopoguerra. Non vi furono né tempo né mezzi per affrontarli, perché il precipitare degli eventi, rotolati sul tavolo della storia come un lancio di dadi, seguiva in realtà l’intreccio di un filo sottile, dipanato impercettibile attraverso tempi e terre lontani.
Per decifrare, anzitutto, l’ipercapitalismo, è necessario perlustrare ben aldilà dei confini nazionali. Deng Xiaoping, futuro capo supremo della Repubblica Popolare Cinese, ha 15 anni quando un bastimento francese lo conduce in Europa per un periodo di studi e apprendistato nelle periferie di Parigi. Sopravvissuto alla rivoluzione culturale e avversario della linea oltranzista all’interno del partito, Deng Xiaoping, dopo diversi rovesci di fortuna, accede al comitato centrale nel 1975, all’età di 71 anni ed è nominato segretario generale del Partito Comunista tre anni dopo. La sua leadership segna l’apertura di una stagione di riforme economiche volte a risolvere i conflitti sociali e modernizzare la Cina. E la sua azione continua, dopo le dimissioni dalle più alte cariche di Stato: nel 1992 Deng Xiaoping affronta un viaggio attraverso la Cina meridionale per promuovere il cambiamento e incitare i politici delle grandi città portuali (Shanghai, Shenzen, Canton) a proseguire nell’azione riformista. Un riformismo in termini cinesi, sia ben inteso, ove ai processi di trasformazione socio-economici, s’accompagna un essenziale conservazione dello status quo rispetto ai diritti umani, che continuano ad essere strutturalmente e gravemente ignorati. Sta di fatto che l’apertura al mondo è un processo ormai inarrestabile: il gigante d’oriente si è destato.
Per l’Italia, come per tutti gli altri paesi occidentali, Stati Uniti compresi, inizia una fase destabilizzante di commercio globale. Il sistema di vasi comunicanti dell’economia mondializzata fa sì che, all’importazione di merci cinesi, corrisponda la fuoriuscita di ricchezza materiale (i capitali) e immateriale (le capacità delle maestranze, spinte fuori mercato dalla concorrenza di produzioni a basso costo). In pratica, l’Occidente importa povertà.
Anche questa improvvisa deviazione degli eventi (il mondo si tuffa in una dimensione globale senza conoscerne la profondità) impone di interrogarsi sugli eventi trascorsi che, rincorrendosi sullo spartito della storia, riallacciano il presente al suo passato: i viaggi di Marco Polo, la caduta di Bisanzio e un fenomeno recondito, antico quanto l’umanità: come già intuito da Fernand Braudel in Monete e civilizzazioni, il saldo commerciale con l’Oriente è sempre stato deficitario, poiché, se sono state rinvenute monete romane in Cina, mai uno scavo archeologico ha riportato in superficie monete cinesi a Roma.
In questo rovesciamento di ruolo di vincitori e vinti, l’Occidente, difensore della libertà e della dignità dell’individuo, riscopre dunque, nella forma nuova di un equilibrio instabile, un fenomeno antico, consolidato lungo la via della seta. E, nel rimescolarsi di vicende lontane e vicine (la riunificazione tedesca, l’accelerazione dell’integrazione europea, la riconversione capitalistica di Paesi emergenti, fino al giorno prima collettivisti), vivere in un’economia di mercato comporta minor spesa in armamenti e, dunque, maggior capacità di risparmio nel pubblico e nel privato.
Come in un planetario meccanico, l’accumulo mette in moto il congegno di pesi e contrappesi che regola capitale, moneta e tassi: la ricchezza della pax americana inietta nel sistema finanziario una massa di capitali senza precedenti, impossibile da riassorbire nel tessuto produttivo, mentre il sistema stesso si espande dall’estuario del fiume delle perle fino ai laboratori della Silicon Valley. Per effetto del rapporto tra domanda e offerta di moneta, i tassi d’interesse scendono fino a entrare in territorio negativo e le differenze tra continenti e Stati diventano valvola di sfogo per mercati sempre più aggregati, sempre più volatili. Il rapporto tra Cina e Stati Uniti si trasforma in un conflitto latente, dove i primi investono il surplus della bilancia commerciale sottoscrivendo il debito pubblico emesso dai secondi, e sotto la spinta di dinamiche globali sempre più indecifrabili il progetto d’integrazione europea prende una deriva tecnocratica; il debito pubblico dei paesi membri finisce balcanizzato tra una neo-lega anseatica e il bacino mediterraneo.
Squilibrio nel commercio globale, guerre valutarie e differenziali nel debito pubblico della zona euro rovesciano il quotidiano di milioni di persone con la stessa furia dei venti d’oceano nelle notti di tempesta. Tanti, troppi individui, imprese, famiglie finiscono in balia del capitalismo selvaggio, delle delocalizzazioni dettate dal profitto e restano naufraghi abbandonati ai margini dei grandi cambiamenti in corso. Dovendo reagire all’urgenza, l’assistenzialismo è il veleno che nella precipitazione viene scambiato per la cura.
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Tilda