3ª parte
Gli imprenditori Fenici, le tasse e la transizione ecologica:
qualche idea per evitare nuovi (e tanti) lavoratori poveri
L’intromissione del potere nella vita dei cittadini, sin dai tempi dei faraoni, coniuga legittimità e violenza. E pazienza. Ma, oggi, per l’ennesima volta, tutto rischia di ripetersi, ai danni delle categorie meno tutelate. Eppure, basterebbe solo un po’ di realismo per trasformare in opportunità gli insegnamenti del passato.
Ne Le Storie, Erodoto racconta che la piramide di Giza richiese la manodopera di 100.000 persone. Studi recenti riducono la stima di metà, ma il principio economico resta immutato: migliaia di lavoratori furono coscritti a un lavoro monumentale, che drenò risorse ingenti, senza rendere beneficio a chi ne fu coinvolto. Sovrapporre blocchi di pietra secondo un ordine geometrico serviva uno scopo ultraterreno di cui, su questa terra, beneficiava solo la classe dominante egizia. Traghettare il potere temporale dei faraoni nel regno dei morti, proiettandolo oltre il tempo, legittimava il lavoro forzato e la centralizzazione totale della ricchezza.
A dispetto dell’economia del Nilo, le civiltà di mercanti che si svilupparono ai tempi dei faraoni, mostrarono una predilezione per i traffici via mare, lo scambio commerciale e la fondazione di colonie. In sintesi, la distribuzione della ricchezza seguì la rotta dell’iniziativa personale. Qualcuno obietterà che i Fenici non lasciarono ai posteri costruzioni monumentali come quelle della valle dei Re. E invece, qualsiasi forma di libertà concessa agli individui è un’opera che lascia sempre tracce di vita nella storia. Non è un caso se, dalle coste libanesi, i Fenici fondarono Qart-hadast, la città nuova che, latinizzata in Carthago, minacciò il controllo romano del Mediterraneo. Da Cartagine, la famiglia dominante di Annibale Barca, fondò Barcellona; una città che, ancora oggi, si batte per un modello di città inscritto nella sua storia millenaria, per mantenere la propria dimensione urbana e il proprio tessuto produttivo.
Pochi esempi del passato, appena abbozzati, sono sufficienti per far risaltare una relazione che è filigrana di ogni sistema economico: il rapporto tra individuo e potere costituito. In economia, questo rapporto si esprime in varie forme; tra quelle più rilevanti e filosoficamente codificate - si pensi, anzitutto, al patto sociale di Rousseau (quello vero) - la più nota e meno amata è la tassazione. Cioè, il prelevamento di una parte di ricchezza, imposto da un’autorità sovrana, necessario affinché ogni membro della comunità disponga, legittimamente, della ricchezza restante. Sul tema esiste una letteratura sterminata, da Locke a Pareto, passando per Adam Smith, Keynes e Milton Friedman. In particolare, Zygmund Bauman, nei suoi studi sulla globalizzazione, nota che per secoli l’imposizione fiscale coincide con forme legalizzate di saccheggio.

In un lungo percorso di razionalizzazione che ha accompagnato il processo di civilizzazione, definito non a torto da Carl Gustav Jung come distacco progressivo dallo stato di natura, le unità di misura hanno raggiunto definizioni internazionali, ormai non più confutabili. Le valute si sono diffuse su scala globale. Lo Stato di diritto, in Occidente, si è consolidato e la materia tributaria è divenuta disciplina tecnica; capita altresì che quest’ultima, laddove le pulsioni anarchiche si sfoghino contro lo Stato nazione, divenga catalizzatrice di violenza.
In reazione a tale contesto, prende forma una nuova centralizzazione di risorse; cioè, per così dire, una piramide moderna. Della quale, a differenza delle piramidi delle antiche civiltà, non resterà alcuna traccia o domanda rispetto alla dimensione dell’estetica e della trascendenza. Questa nuova centralizzazione è l’assistenzialismo.
Iniziative quali il reddito di cittadinanza o il suo precedente francese, il reddito universale (entrambe, appaiano riallacciarsi al pensiero di Jürgen Habermas, che intravedeva nella fondazione della Repubblica francese una sostanza universalista), condividono radici nel tentativo dello Stato moderno d’intervenire in economia non solo con finalità di ridistribuzione, ma anche con l’intento di diventarne attore e, quindi, di sostituirsi alle forze produttive sane.
La linea di demarcazione tra legittima intromissione e indebita invasione nelle libertà dei cittadini è tracciata sulle sabbie della modernità: qual è la soglia che lo Stato contemporaneo non può varcare? Tale linea, nel tempo, avanza, spinta dalle circostanze che l’epoca attuale affronta: la salvaguardia dell’impiego, la protezione delle conoscenze industriali, la difesa della sovranità, le minacce esterne. Le misure non sono quasi mai del tutto giuste o sbagliate. È l’abuso a decretarne la deriva. Per esempio: se il sostegno alla disoccupazione (che per sua natura dovrebbe essere temporaneo) non innesca il rientro nel mercato del lavoro, tale forma di “rendita” calpesterà, da un lato, la dignità di chi non lavora, dall’altro, le motivazioni di chi lavora.
E ancora: le politiche agricole sono, indubbiamente, uno strumento fondamentale per assicurare il sostentamento di una popolazione e la qualità della sua alimentazione. Tuttavia, se, come spesso avviene, i programmi ministeriali sono calibrati sulla difesa di interessi corporativi o elettorali, piuttosto che sulle sfide reali del presente, allora l’intraprendenza degli agricoltori sarà spinta ai margini, a vantaggio dello status quo e del consenso.
A questo punto, val la pena sottolineare quanto è necessario che il recente obiettivo della transizione ecologica non si esaurisca nella sua dimensione ideologica (oggi, prevalente), ma si sostanzi nella sua rilevanza economica.
Anche qui: il cambiamento della mobilità urbana può realmente essere al servizio delle persone. Purché si abbandonino gli slogan e si comprenda per davvero il quotidiano delle periferie. Pensate, per intenderci, al dipendente di un panificio di Milano che debba farsi, alle 5 di ogni mattina, da Cesano Boscone a via Tibaldi in bici (potete controllare su Google Maps cosa significhi); o prendendo una metro che, al momento, non c’è. E questo, ovviamente, vale per qualsiasi città italiana o europea (certo, tranne Amsterdam. Ma qui, sarebbe troppo lungo soffermarsi sul perché è un’eccezione).
Senza questo realismo, l’ecologia fiscale determinerà un giogo insostenibile per tante categorie (i pendolari, gli autotrasportatori, i precari ecc…), e un rafforzamento indiretto dei privilegi di tante altre (solo a mo’ di esempio, e senza alcun intento di obsoleta denuncia classista, si pensi a chi vive in centro storico e può andare, effettivamente, a lavoro in bici).
Ecco, va a finire che i primi, i lavoratori delle periferie, impoveriti dal cambiamento, finiranno a gravitare, pure loro, nell’orbita dei sussidi statali. Sarebbe un paradosso, un risultato contrario ai fini annunciati. A detrimento della libertà fondamentale di ogni cittadino (continua...).
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